Il paradosso italiano: più debito ma meno crescita

In base alle previsioni Istat, il PIL italiano è atteso crescere dell’1% nel 2024 e dell’1,1% nel 2025, in una previsione più ottimistica rispetto al +0,7% stimato dal FMI per entrambi gli anni, dopo il +0,9% registrato nel 2023. Un rallentamento dopo il forte recupero registrato nel biennio successivo al crollo pandemico del 2020 e che ha visto la nostra economia crescere al ritmo più elevato tra le quattro maggiori dell’Unione Europea, recuperando il livello del PIL di fine 2019 già nel terzo trimestre del 2021.

Nell’ultimo triennio, gli investimenti hanno dato un contributo sostanziale all’attività economica in Italia, con un impulso importante dal comparto delle Costruzioni, grazie agli incentivi governativi a sostegno dell’edilizia, a scapito però della stabilità dei nostri già fragili conti pubblici (con un costo di circa 200 miliardi per i contribuenti). La crescita, come vedremo meglio in seguito, è stata infatti accompagnata da un ulteriore incremento del debito pubblico, aumentato di circa 100 miliardi l’anno nell’ultimo quadriennio e con un deficit che, nel 2023, ha raggiunto il 7,4% (rispetto al 3% imposto dai dettami di Maastricht), valore massimo dell’intera Eurozona.

Allargando il periodo di analisi, inoltre, emerge che, se da una parte la performance dell’economia italiana tra il 2019 e il 2023 è stata relativamente buona a confronto con le altre economie europee, dall’altra questi risultati seguono due decenni caratterizzati dalla crisi più prolungata della storia nazionale. Tra il 2001 e il 2019, infatti, la crescita economica del nostro Paese è stata inferiore a quella degli altri principali Paesi UE, rallentando sensibilmente già prima della recessione del 2008-2013 causata dalla doppia crisi finanziaria e del debito sovrano. Solo la ripresa post pandemica ha riportato, a fine 2023, il PIL reale al livello del 2007, in grave ritardo rispetto alle altre economie europee. In 15 anni, si è accumulato un divario di crescita di oltre 10 punti con la Spagna, 14 con la Francia e 17 con la Germania. Se si confronta il 2023 con il 2000, il divario è di oltre 20 punti con Francia e Germania, e oltre 30 con la Spagna.

Figura 1 – Tasso di crescita del PIL reale: Paesi a confronto

Figura 1 - Tasso di crescita del PIL reale: Paesi a confronto

Fonte: Eurostat

Un ritardo che sembra riconducibile principalmente alla stagnazione della produttività (PIL per ora lavorata), al tempo stesso causa e conseguenza della bassa crescita, il cui apporto alla variazione complessiva del 7,7% del PIL in volume tra 2000 e 2023 è stato pari ad appena 1,5 punti percentuali. Sull’intero periodo, la dinamica della produttività è stata inferiore alle altre grandi economie UE in quasi tutti i settori (con l’eccezione di Commercio, logistica e attività ricettive) e, in aggregato, in tutti i sotto periodi considerati tranne quello più recente.

Secondo il Rapporto annuale Istat, il divario nei livelli di produttività tra Italia, Francia e Germania è in gran parte causato dal tessuto imprenditoriale che caratterizza il nostro Paese, in cui permane una quota elevata di imprese di dimensioni più piccole.

Le statistiche strutturali sulle imprese consentono di apprezzare il ruolo delle micro e piccole unità nel “limitare” la produttività dell’economia: considerando il valore aggiunto per addetto a prezzi correnti (produttività apparente) emerge infatti una correlazione positiva con la dimensione aziendale, soprattutto nella manifattura. Per il 2021, l’ultimo anno per cui le informazioni sono disponibili, l’Italia mostra livelli di produttività superiori a quelli delle principali economie UE nel segmento delle medie imprese (50-249 addetti) e dati in linea con quelle franco-tedesche nelle piccole (10-49 addetti) e nelle grandi (250 addetti e oltre), mentre si osserva una produttività significativamente inferiore nelle microimprese (fino a 9 addetti). Nei servizi di mercato, il divario è presente in tutte le classi dimensionali ed è particolarmente ampio nelle microimprese.

Figura 2 – Evoluzione del rapporto debito pubblico/PIL

Figura 2 - Evoluzione del rapporto debito pubblico/PIL

Fonte: Istat

Se la crescita del PIL negli ultimi due decenni è stata debole, lo stesso non si può dire della dinamica del debito pubblico, aumentato di oltre 1.000 miliardi in poco più di 10 anni e con un rapporto rispetto al PIL costantemente oltre il doppio della soglia del 60% stabilita dai criteri di Maastricht (anche Francia e Spagna, da dopo la pandemia, presentano un rapporto debito/PIL superiore al 100%, sebbene comunque inferiore al nostro in media di circa 30 punti). Una sorta di paradosso che ha creato un circolo vizioso in cui il progressivo incremento dell’indebitamento non è servito a finanziare un’accelerazione del Prodotto Interno Lordo, ma al contrario ha costituito un freno impugnato dai mercati e terreno di scontro con l’Europa.

Ma dove sono state allocati quindi i diversi miliardi di euro presi in prestito? Buona parte sono serviti per finanziare spesa corrente e interventi di breve periodo e, più in generale, il forte incremento della spesa assistenziale, passata dai 73 miliardi del 2008 a 157 miliardi nel 2022, includendo diversi tipi di bonus e provvedimenti a sostegno delle famiglie. Un insieme di misure che non solo non sono in grado di risolvere i diversi problemi strutturali, come ad esempio quello dei salari reali o delle inefficienze del mercato del lavoro, (senza contare alcuni effetti distorsivi su occupazione ed entrate fiscali), ma addirittura non sembrano aver prodotto benefici per contrastare il graduale impoverimento degli italiani. Al 2023, infatti, la stima preliminare dell’incidenza di povertà assoluta in Italia è pari all’8,5% tra le famiglie e al 9,8% tra gli individui, raggiungendo livelli mai toccati in precedenza per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e di 5 milioni 752mila individui in povertà (nel 2008 erano 2,1 milioni). Complessivamente, rispetto al 2014 sono aumentate di 683mila unità le famiglie in povertà (erano 1,552 milioni) e di circa 1,6 milioni gli individui in povertà (erano 4,149 milioni).

Nel 2023 è comunque proseguita la riduzione dell’incidenza del debito sul PIL iniziata nel 2020, quando aveva toccato il picco del 155%, attestandosi al 137,3% rispetto al 140,5% dell’anno precedente. Questa tendenza – sottolinea l’Istat – è però destinata a cambiare già nel 2024, in un contesto di crescita reale e inflazione contenute e tassi di interesse relativamente elevati, rendendo difficile il percorso di riduzione del peso del debito. Nel quadro tendenziale del DEF 2024, pubblicato nell’aprile di quest’anno, il profilo del debito pubblico è infatti previsto in lieve salita sino al 2026, anche per effetto dei bonus edilizi. Il DEF prevede un percorso tendenziale volto al graduale consolidamento dei conti pubblici, con il rientro del deficit sotto la soglia del 3% nel 2027 e l’avvio, nello stesso anno, di un percorso di riduzione del rapporto debito/PIL.

Secondo l’Istat nei prossimi anni, il sistema economico dovrebbe beneficiare del flusso di risorse previste nel PNRR e degli investimenti in digitalizzazione, la cui intensità è tuttavia ancora inferiore rispetto alle altre tre grandi economie UE. In questo quadro, l’ammodernamento del sistema produttivo richiederà la prosecuzione della crescita degli investimenti e, in particolare, una maggiore integrazione delle tecnologie digitali nei processi produttivi, ambito in cui, nel corso dell’ultimo decennio, la performance delle imprese italiane è stata ancora una volta relativamente debole. Se, da una parte, gli incentivi fiscali (Piano Industria 4.0 e successivi) e le necessità emerse durante la pandemia hanno generato una forte accelerazione nell’uso delle tecnologie digitali, dall’altra la complessità organizzativa associata alla dimensione di impresa impatta sul numero e la combinazione di attività digitali adottate dalle unità produttive, generando una rilevante eterogeneità nell’intensità e nelle modalità di digitalizzazione.

Serve quindi un’inversione di rotta nella politica fiscale espansiva che, pur contribuendo alla ripresa post-COVID, ha tenuto il deficit e il debito pubblico a livelli molto alti, facendo aumentare i rischi per l’Italia e agendo come freno per gli investimenti privati, così come sottolineato dal Fondo Monetario Internazionale. E, secondo l’istituto di Washington, la ricetta consiste nel ritirare misure di crisi inefficienti e temporanee (come i vari bonus e sussidi) a favore di iniziative a sostegno di crescita, efficienza e che incrementino in modo permanente la produttività. Un piano che vada oltre l’orizzonte del PNRR poiché, sottolinea il FMI, la strada da percorrere è ancora lunga.

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